“Silenzio è anche assenza di risposte...
“Silenzio è anche assenza di risposte... In presenza di una malattia rara, le domande che si pongono le persone affette e i loro familiari sono spesso numerose. Le risposte a volte mancano perché non ancora esistono, altre volte esistono ma si possono trovare solo imboccando la strada giusta o alla fine di un lungo cammino. In ogni caso, col passare del tempo, alcune di esse arrivano. L’importante quindi è riuscire a non farsi sopraffare dal silenzio, ma cercare continuamente di riempirlo, di annullarlo, come fanno le protagoniste di questo racconto: la piccola Emma, sorella di un bambino affetto da sindrome cervico-oculoacustica, e sua madre, insegnante di scienze delle scuole medie”
Silenzio bianco
I bambini spesso riescono a sorprenderti. Quando meno te lo aspetti, se ne escono con delle frasi talmente dense di significato da lasciarti senza parole. Emma non era nuova a uscite di questo genere.
Ricordo ancora bene lo stupore che mi colse una mattina in spiaggia dopo una sua esclamazione. Ero appena tornata all’ombrellone dopo una nuotata e, in piedi, mi stavo asciugando al sole. Emma era seduta all’ombra e mi scrutava attraverso i suoi occhialetti da sole colorati. A un certo punto mi disse: «Mamma, sei tutta piena di mare!» Quell’immagine la trovai meravigliosa, di più, vi ravvisai un che di autenticamente poetico e, svanita l’iniziale sorpresa, mi avvicinai e le sussurrai che aveva detto una cosa molto bella.
Un’altra volta passeggiavamo insieme nel parco e, arrivate nei pressi del laghetto, vedemmo un’anatra col suo affollato seguito di anatroccoli attraversare la strada proprio davanti a noi. Dopo aver assistito a quella scena inusuale, Emma, tutta eccitata, iniziò a riempirmi di domande sulle anatre e su come nascono i pulcini. Poi all’improvviso si fermò e mi chiese: «E Luca ed io, mamma, perché siamo nati?» Non era uno dei soliti perché, la domanda era di quelle importanti. Certo, era giunta inattesa ma la risposta non ammetteva titubanze. La guardai allora negli occhi e con voce sicura le risposi: «Perché il bene che si vogliono mamma e papà era troppo grande per tenerselo tutto per loro e, così, l’hanno voluto condividere con i loro figlioletti... Tu e Luca siete il frutto del nostro amore!» Rimase un po’ a meditare, poi sulle sue labbra affiorò un sorriso di soddisfazione ed esclamò: «Mamma, è proprio bello essere la vostra mela!» Lì per lì accennai una risata ma immediatamente dopo mi resi conto che con quella frase, solo in apparenza ingenua, era stata Emma a spiegarmi qualcosa. Mi aveva fatto capire che lei, nonostante tutto, era una bambina serena ed io di quella conferma avevo davvero un grande bisogno. Mi chinai allora verso di lei, le accarezzai il visetto e, ricambiandole il sorriso, la ringraziai commossa.
Un pomeriggio però le sensazioni suscitate dall’esclamazione di Emma andarono oltre lo stupore e oltre la commozione. Luca, il mio primo figlio, se ne stava seduto davanti al tavolo a disegnare, tutto assorto nel suo mondo colorato. Io lo osservavo da dietro, mentre con le matite tracciava figure ai miei occhi astratte e, senza fretta, le riempiva dei colori più vari: il tronco sbilanciato in avanti e leggermente incurvato, la testa profondamente incassata tra le spalle e le orecchie piccole e proiettate all’esterno, quasi a voler captare al meglio quei suoni, che dalla nascita non riusciva a percepire normalmente.
Luca ha la “sindrome cervico-oculo-acustica”, un nome che all’inizio, da solo, era in grado di intimorirmi ma al cui suono mi sono ormai abituata da tempo, tanto che oggi mi è divenuto addirittura familiare. A due anni era stata questa la diagnosi posta nel servizio di consulenza genetica, dopo aver invano interpellato pediatri, ortopedici, otorini, oculisti e neuropsichiatri infantili. Oltre all’ipoacusia, grave, Luca presenta anche gli altri due segni clinici che spiegano il nome della malattia ovvero una particolare forma di strabismo congenito e la fusione di alcune vertebre cervicali, che limita tutti i movimenti della testa e rende il suo collo esageratamente corto, quasi inesistente.
Il suo viso inoltre è reso inespressivo da una paralisi facciale che, da sempre, tende a celare i suoi reali sentimenti. Incredibilmente però tutti coloro che lo frequentano riescono a stabilire con lui una straordinaria sintonia e, spesso, sono in grado di cogliere anche minime sfumature del suo stato d’animo. Non saprei spiegare con precisione come questo accada. Forse è grazie allo sguardo di quei suoi occhietti “indisciplinati”, ai fremiti di quel suo corpicino piegato dalla scoliosi o al modo in cui balbetta le sue paroline. Probabilmente è grazie a tutte queste cose assieme. Di fatto è così.
A complicare tutto però c’è quel dannato ritardo mentale, che, tra i vari problemi che presenta Luca, è quello che ho fatto più fatica ad accettare e che mi ha fatto, e continua a fare, più male. Infatti, a parte le oggettive difficoltà che esso comporta per mio figlio, quando seppi che, specie nei maschi, la sindrome è estremamente rara e che nel suo ambito il ritardo mentale è addirittura eccezionale, mi sentii doppiamente beffata dalla sorte, come schiaffeggiata dal destino.
Certo, nel tempo i numerosi momenti felici che Luca ci ha donato hanno in parte colmato l’abissale profondità del dolore iniziale. Provando una gioia forse più intensa di altre mamme per il raggiungimento di traguardi che per altri bambini sono scontati, ho imparato a riconoscere ed apprezzare la grandezza delle piccole cose. Grazie a mio figlio ho iniziato a guardare il mondo da una prospettiva diversa e mi sono convinta che, sebbene non siamo tutti uguali, siamo davvero tutti ugualmente preziosi. I miei interrogativi sulla condizione di Luca però, specie all’inizio, erano veramente tanti, forse troppi...
Quel pomeriggio Luca aveva già otto anni, tre più della sorellina. Il maestro Piero, che facevamo venire a casa ogni giorno nell’intenzione di fornire al bambino uno stimolo in più oltre alla cuola e alla famiglia, era appena andato via. Sul tavolo, tra alcuni fogli bianchi e le matite colorate sparse alla rinfusa, spiccava l’oggetto che Luca aveva realizzato con l’aiuto del maestro alla fine della lezione. Si trattava di una trottola ottica. Niente di particolarmente complesso: una matita infilzata nel centro di un cartoncino circolare, suddiviso in sette spicchi, colorati ognuno con un colore dell’arcobaleno. Quando però alla matita si imprimeva un movimento di rotazione, l’effetto era stupefacente, specie agli occhi di un bambino. Grazie alla velocità del movimento circolare, i sette colori in un attimo si sovrapponevano, combinavano e unificavano, e il cartoncino variopinto si mutava, come d’incanto, in un roteante disco di colore bianco.
Emma era appena tornata dalla scuola dell’infanzia. Com’era solita fare, aveva iniziato a svolazzare attorno al fratello come una farfallina attorno al suo fiore preferito e subito la sua attenzione venne catturata dalla trottola. Si avvicinò infatti al bordo del tavolo e, indicando “l’oggetto sconosciuto” con un dito, chiese al fratello: «Questo che cos’è?»
Luca, compiendo il tipico movimento che è costretto ad eseguire per girarsi, aveva ruotato in blocco il tronco e la testa verso la sorella. Nonostante la maschera amimica del suo volto, appariva chiaramente orgoglioso per l’interesse mostrato verso la sua opera e cercò di pronunciare al meglio la risposta. «Tho-t-tla!», tartagliò.
«Una trottola?!?», gli fece subito eco Emma, che ormai era ben abituata a comprendere le parole del fratello.
«Sì, una trottola magica» soggiunsi io, mentre Luca annuiva compiaciuto.
«Perché magica?» chiese lei incredula e ancora più incuriosita.
Mi girai allora verso Luca e con un tono di voce un po’ più alto gli dissi: «Dai, fa’ vedere ad Emma come funziona.» Nello stesso tempo sfregavo tra loro i palmi delle mani per mimare il movimento necessario a indurre la rotazione della matita. Luca eseguì all’istante ed Emma rimase a bocca aperta nell’assistere a quella momentanea metamorfosi cromatica.
«Fortissimo! Posso provarci anch’io? Dai, fammi provare!» esclamò tutta elettrizzata e, senza attendere la risposta del fratello, si impossessò della trottola e iniziò a farla girare più volte. Poi, placatasi l’esaltazione iniziale, mi chiese: «Ma perché, mamma, i colori diventano bianco? Com’è possibile?»
«Perché il bianco, Emma, non è assenza di colore», risposi con una certa difficoltà, «ma il risultato dell’unione di tutti i singoli colori…» Dall’espressione del suo visetto non mi sembrava molto convinta. Così, nel tentativo di spiegarmi meglio, continuai: «Anche se può sembrare strano, una cosa può essere fatta di più elementi che, in combinazione tra loro, possono apparire diversi da come appaiono singolarmente e, sebbene presenti, possono anche non essere... evidenti.» Emma aveva lo sguardo perso nel vuoto. In effetti, nonostante le mie buone intenzioni, la spiegazione era stata decisamente poco chiara.
Provai allora con un esempio. «Pensa a ieri», dissi, «quando mi hai aiutato a fare il dolce per la colazione... Per preparare l’impasto abbiamo preso farina, uova, zucchero, burro e una buccia di limone, abbiamo aggiunto un pizzico di lievito, abbiamo mescolato tutto assieme, lo abbiamo versato in una tortiera e lo abbiamo messo nel forno. Infine, dopo un’oretta, abbiamo ottenuto una bella ciambella friabile, di un invitante colore ambrato. Osservando la torta, quindi, i singoli ingredienti non si riescono più a distinguere. Se però tagli una fetta della torta e te la mangi, ti rendi subito conto che sono ancora tutti lì: dalla consistenza e dal colore della mollica puoi riconoscere la presenza della farina e delle uova, dal sapore quella dello zucchero e del burro, dal profumo quella del limone, non è vero?» Emma adesso mi guardava con gli occhi spalancati e, senza fiatare, faceva lentamente cenno di sì con la testa. «Ebbene, il bianco è come la torta e i colori della trottola sono come gli ingredienti… E’ un po’ più chiaro adesso?»
«Sì mamma! E’ più chiaro». Incoraggiata da quest’affermazione decisi allora di proseguire.
«Molto bene!», le dissi. «Adesso rispondi a questa domanda. Sai qual’è la cosa più bianca che c’è?»
«La neve?» rispose, dopo una breve pausa di riflessione.
«La luce del sole!» ribattei. «I raggi solari sono di un bianco così intenso da essere addirittura luminosi. Ora, se un raggio di sole…»
Mentre parlavo, Luca, piuttosto annoiato dal discorso tra me ed Emma, che di certo non riusciva a seguire distintamente, si era girato di nuovo verso il tavolo per riprendere a disegnare. In seguito a quel movimento, la protesi acustica iniziò ad emettere il solito fischio acuto e stridente. Con l’apparecchio precedente questo fastidioso inconveniente era molto più frequente, ma continuava a verificarsi anche con quel nuovo modello. Emma comunque sapeva bene come eliminarlo e, in un attimo, si avvicinò al fratello e riposizionò correttamente l’apparecchietto, facendolo tacere. Durante quest’operazione avevo interrotto la mia spiegazione. Emma non vedeva l’ora che ricominciassi e, appena il fischio scomparve, mi disse: «Dai, mamma, continua». Così, dopo un sorriso di apprezzamento per quello che aveva fatto, ripresi: «Se un raggio di sole, dicevo, colpisce una gocciolina di acqua, succede che, al posto del raggio di luce bianca, si formano tanti raggi luminosi di colore diverso. E’ come se ogni gocciolina fosse un crocevia, da cui si dipartono tante strade divergenti, una per ogni raggio colorato… Ora dimmi, Emma, ti ricordi cosa abbiamo visto quest’estate in montagna, dopo quel forte temporale?»
«Sì, un grande arcobaleno!» rispose senza esitare e con un’espressione così raggiante da far trasparire ancora tutta l’euforia di quella visione.
«Beh, gli arcobaleni», continuai, «si formano proprio in questo modo: attraverso la separazione delle diverse componenti colorate della luce solare, ad opera di microscopiche goccioline di acqua sospese nell’aria... Gli arcobaleni, quindi, dimostrano che dal bianco è possibile separare i singoli colori e confermano quello che ti dicevo prima, e cioè che il bianco è dato dalla fusione dei diversi colori.»
Emma mi aveva seguito con grande attenzione e, nonostante la complessità dell’argomento e i limiti della mia spiegazione, mi sembrava che avesse colto l’essenza del discorso. E infatti,
indicando uno dei fogli bianchi posati sul tavolo, chiese meravigliata: «Allora tutte le cose bianche sono piene di colori? Anche questo foglio, in cui non c’è disegnato niente?»
«In un certo senso… sì, è proprio così» risposi.
Rimase per un po’ a riflettere, fissando la testa del fratello. Poi una luce si accese improvvisamente nei suoi occhi e, abbandonato il tono interrogativo dei dieci minuti precedenti, esclamò con voce secca e squillante: «Ma allora, mamma, non è vero che Luca non ci sente… Lui in realtà sente tutti i rumori, tutti i suoni, tutte le voci insieme!» Queste parole le aveva pronunciate con la soddisfazione di chi è convinto di aver avuto un’intuizione felice e, puntati i suoi grandi occhi verso i miei, si zittì in attesa di una mia reazione, chiaramente desiderosa di un cenno di consenso.
Rimasi impietrita, mentalmente abbagliata da quelle parole inaspettate e, dimenticando quel poco che i medici erano stati in grado di spiegarmi, ebbi per un momento la sensazione di aver trovato finalmente la risposta ad almeno una delle mie numerose domande. Per un attimo pensai che doveva essere proprio come diceva la mia Emma. Il silenzio che regnava nelle orecchie di Luca era in realtà popolato da un eccessivo frastuono. Nella sua testa le voci, i suoni e i rumori più disparati, come i colori della trottola nel loro roteare vorticoso, si sovrapponevano, scontravano, fondevano e annullavano a vicenda, generando un assordante silenzio bianco. Evidentemente erano stati proprio tutti quei rumori, tutti quei suoni, tutte quelle voci ad aver bloccato la sua mente, senza dubbio era quel caotico arcobaleno acustico a interferire con il movimento dei suoi occhi.
Questi pensieri erano balenati nella mia mente con la rapidità e il furore della fiammata di un fiammifero appena acceso. Con la stessa fugacità di quella fiamma però iniziarono inesorabilmente a spegnersi. Il fuoco fatuo di quel sussulto mentale venne lentamente soffocato dalla ragione. Rigidi meccanismi razionali tornarono a dominare il mio cervello, generando pensieri forse più rigorosi ma sicuramente meno originali e troppo aridi per l’enorme sete della mia anima. La relazione di similitudine tra bianco e deficit uditivo, che pure poco prima avevo percepito come un’intuizione geniale, cominciò piano piano ad apparirmi ingiustificata sul piano logico e il meccanismo, con il quale pretendevo di spiegare la malattia di mio figlio, iniziò a sembrarmi sempre più inverosimile e del tutto inadeguato a fornire una spiegazione convincente dell’intero quadro clinico.
Emma intanto era ancora lì che mi fissava. Girai allora lo sguardo verso Luca. L’espressione del mio volto le avrebbe certamente rivelato il sentimento di profonda delusione che era calato
su quei pensieri effimeri. Poi, ostentando falsa sicurezza, con il tono risoluto di chi pensa di avere l’autorità di giudicare la bontà delle affermazioni altrui, le dissi: «Forse è proprio come dici tu, amore mio, anzi è sicuramente così!»
Eh sì, nonostante la sua tenera età, le domande che Emma si poneva riguardo il fratello erano identiche alle mie ma le sue, almeno le sue, non le potevo, non le volevo lasciare senza risposta…
Autore: Francesco Benedicenti
Tratto da:
Il Volo di Pegaso. Raccontare le malattie rare: parole e immagini. “Le voci del silenzio”
A cura di Domenica Taruscio, Stefania Razeto e Paola De Castro
Ed. Istituto Superiore di Sanità – Centro Nazionale Malattie Rare (CNMR)
Anno 2010. S1/22, pagg. 46-50.